CAP 7 - Libertà conquistata

La fienagione nei “prati alti” rimane comunque uno dei ricordi più dolci della mia verde età e rappresenta la presenza più entusiasta alle occupazioni della mia famiglia. 

Se fino all’età di dieci anni amavo partire verso le 11,30-12,00 con mia mamma e Norina e rincasare con loro nel tardo pomeriggio, quando fui un po’ più cresciuta iniziai a chiede di tornare a casa da sola anticipando di qualche ora il rientro.

 Assimilando i discorsi degli adulti, il pensiero dei nostri alloggi completamente disabitati che in passato mi aveva così affascinato, adesso mi assaliva in modo quasi opposto e ritenevo necessario che qualche persona rincasasse in anticipo per controllare l’abitazione, per accertare che il gregge non fosse sconfinato nei campi dei vicini, che al pollame non mancasse nulla.

Dopo le prime reticenze, soprattutto da parte degli uomini che vedevano questo o quel pericolo, fui accontentata.  

Verso le 16,30 partivo stando bene attenta ad allacciarmi le scarpe prima di intraprendere la scabrosa discesa. Lungo la strada mi fermavo soltanto a controllare se potevo scorgere le pecore nel campo che mia mamma mi aveva indicato.

 Ero tutta contenta se riuscivo a intravederle, all'opposto mi rattristavo subito perché le raccomandazioni di andare dritta a casa, senza preoccuparmi troppo di quegli animali erano state talmente incalzanti che non avrei mai osato disubbidire.

Tornare da sola e aprire con chiave la porta di casa era una soddisfazione talmente grande che per niente al mondo avrei voluto rinunciarvi.

Non nego che, soprattutto le prime volte, entrando in quella abitazione deserta, mi assalivano le vetuste paure e provavo il desiderio di ispezionare ogni stanza per accertarmi che tutto era così come lo si era lasciato.

Terminata la perlustrazione dell’interno dovevo assolvere al ruolo di garante della salute di tutti gli animali domestici. Controllavo volentieri se ai polli mancasse da bere o da mangiare e mi rallegravo se era necessario procurare del grano oppure riempire d’acqua i tegami sparsi vicino alla stalla. La stessa amorevolezza concedevo ai conigli che, rinchiusi nelle gabbie, più difficilmente dei polli avrebbero potuto sopperire alle loro necessità.

Le prime volte rimanevo quasi meravigliata del fatto che la campagna vivesse altrettanto appassionatamente la fienagione.

La vallata ad est della nostra abitazione era disseminata di persone impegnate nei vari agri e il vocio che percepivo chiaramente mi aiutava a non sentirmi sola. Riuscivo a intendere chi erano i miei compagni serali, non solo perché a tratti distinguevo le loro fisionomie, ma anche grazie alle varie tonalità delle esclamazioni che erano talmente acute da poter identificare la persona. Venivo talmente rapita da tutto quel brulicare di voci e gesti che potevo starmene per ore lì fuori, magari fino al rientro della mamma.

Ma sotto il tetto della mia amata catapecchia si nascondevano segreti altrettanto allettanti che volevo avere il tempo di scoprire da sola.

Mollati i rumori del mondo esterno, potevo finalmente assaporare il privilegio che mi era stato concesso: sentirmi per alcune ore padrona inconfutabile del mio regno. I primi anni che mi era stata concessa la licenza non potevo fare a meno di ricominciare quelle attente ispezioni alle quali mi aveva abituata il nonno da piccola.

La cassapanca di legno di ciliegio attirava sempre la mia curiosità: sapevo che la mamma riponeva lì gli indumenti che venivano usati raramente, ma conoscevo anche l’attenzione che la padrona di casa prestava all’ordine e per questo avevo timore di essere scoperta se non fossi stata in grado di rimettere tutto al suo posto.

Un pomeriggio mi feci coraggio ed iniziai l’esplorazione. Nel baule trovai molti indumenti che non mi era mai capitato di notare a vestimento di qualcuno. Il mio trastullo consisteva nell’indossare quegli abbigliamenti logori ed ammirarmi nello specchio grande della camera matrimoniale.

Tra tutte quelle vesti, ne amavo una in modo esclusivo: si trattava di una camicia da notte color rosa accesso ingentilita da pizzi celesti applicati ai polsi, alla scollatura bene era evidente e anche a livello della vita.

 La viscosità della stoffa e la sua brillantezza me la facevano credere un capo di enorme valore che la mamma aveva messo in serbo per chissà quale evenienza. Portai avanti a lungo il rito di sgrovigliare l’eccellente cimelio, ammirarlo e poi ripiegarlo alla perfezione, accantonando nel cuore il desiderio di vestirlo.

Ormai la mia permanenza dopo il pranzo era diventata un fardello dal quale dovevo liberarmi il prima possibile, ma gli uomini di famiglia mi dissuadevano dal riprendere il cammino nelle ore più calde. Comunque riuscii ad anticipare sempre più il mio ritorno adducendo la necessità di accertarmi concretamente e non più con un fugace sguardo da lontano, della salubrità del gregge. Conoscevo bene le vie che portavano ai pascoli degli ovini, imparai ad aprire i cancelli sfilando la roccia dalla colonna, così come diventai esperta nell’oltrepassare i ruscelli senza bagnarmi.

 Gli spazi da gestire da sola diventavano più e…forse avrei avuto il tempo anche di infilarmi finalmente la profetica veste rosa.

Così adornata, mi posizionavo davanti alla specchiera figurandomi una famosa cantante che saliva sul palcoscenico tra le grida e le esaltazioni dei suoi fan.

La televisione, da poco entrata nella nostra casa, ci aveva fatto scoprire la realtà dello spettacolo in modo avvincente. Nessun programma ci sembrava banale, anche se tra tutti preferivano le sane commedie musicali all’italiana che venivano trasmesse a cadenza settimanale.

 Il Festival della Canzone Italiana di Sanremo rappresentava indubbiamente un altro avvenimento da non perdere. In quelle serate d’inverno, la famiglia si riuniva davanti al piccolo schermo e stava lì per ore e ore aspettando la proclamazione del vincitore. Ricordo che lo zio appuntava tutti i titoli delle canzoni con il relativo interprete, poi ci dilettavamo nello stilare una personale classifica.

A tenerci incollati all’apparecchio era senz’altro l’interesse di conoscere il nome del vincitore, ma quelle ore si snodavano soavemente grazie ad uno scenario meraviglioso che, per una volta all’anno, faceva sognare anche la povera gente come noi.

Soprattutto mamma e zio Renzo rimanevano ammaliati da tutto l’apparato scenico: la magnificenza del palco adorno di fiori, l’eleganza nei vestiti e nelle movenze di tutti i membri dell’orchestra si coniugava alla perfezione con la soavità dello stile musicale, la raffinatezza del conduttore di turno che usava un linguaggio garbato anche nei momenti più spiritosi della serata.

 I veri protagonisti del palcoscenico erano i cantanti e da loro, specialmente dopo la metà degli anni ’60, ci si poteva aspettare qualche bizzarria di troppo che tuttavia non avrebbe turbato la soavità dello scenario.

I motivi ascoltati a Sanremo rimanevano nel cuore per un anno intero e anche oltre; canterellati anche dalla gente comune, segnavano i momenti splendidi come quelli meno sereni della vita.

Quando nei caldi pomeriggi d’estate me ne tornavo a casa e mi infilavo quella veste tanto amata era facile potermi identificare con la diva più delicata del Festival. Bastava stringere il pugno, avvicinarlo alle labbra modi microfono…ed ecco la diva che si esibiva nei più illustri teatri, tra gli applausi di migliaia di sconosciuti.

Alcune arie continuavo a intonarle anche al di fuori di quella sceneggiata: mi soddisfaceva oltremodo sentir vibrare le mie corde vocali ed ascoltare l’emissione dei suoni, mi pareva di essere intonata e quella sensazione mi predisponeva alla gioia. Gli anni più leggendari si erano indubbiamente compiuti, avevo perso quella bambinesca incoscienza che mi aveva tenuto lontana dalle afflizioni per il mio difetto fisico.

 Proprio quello specchio della camera matrimoniale dinanzi al quale mi proponevo ora come cantante famosa, ora come attrice improvvisata dei personaggi delle commedie musicali, si rivelò il mio compagno più schietto grazie al quale presi coscienza delle mie imperfezioni.

Fu un pomeriggio lunghissimo ed attesi con ansia l’arrivo di mia madre per chiederle conferma della barbarie che mi si era chiarita all’improvviso.

 Rallentai il passo, fissai lo sguardo sull’immagine riflessa …altro che diva dello spettacolo! ….

L’arto inferiore destro se ne andava per conto proprio ed io non me ne ero mai accorta!

Mi adagiai su quel letto nuziale che tanto amavo ed iniziai a pregare di fronte all’immagine della Sacra Famiglia.

 La figura di quel bambinello completamente nudo era talmente armoniosa che Maria lo ostentava con giusto vanto e nello sguardo di Giuseppe mi figuravo un duplice encomio tanto da staccarmi dall’intensità della supplica che ritenevo perfettamente inutile. Perché quella famiglia così armonica avrebbe dovuto prestare orecchio alle invocazioni di una povera zoppa?

Spogliata da quegli addobbi della finzione, provai il desiderio di essere del tutto scoperta come quel fanciullo. Nella totale nudità, la specchiera mi restituiva una figura non del tutto sfornita di piacevolezza e potei appurare che in posizione statica la mia deformità non si notava nemmeno.

Se ripenso a quel periodo comprendo che il mio inconscio ha escogitato immediatamente dei sistemi di sopravvivenza che hanno permesso di rimanere in un retto equilibrio con me stessa e con gli altri.

 

Quando la mamma arrivò mi comportai esattamente come tutte le sere, senza fare parola della sconcertante scoperta.

 Frequentavo le scuole medie ed ero divenuta una signorinella. Grazie al mio comportamento esemplare, mi guadagnavo sempre più la fiducia dei miei famigliari che mi affidavano incarichi di una certa responsabilità.

Adesso erano proprio loro a chiedermi di tornare a casa prima e di rimettere le pecore nell’ovile in modo che la mamma le trovasse pronte per la mungitura e lei iniziò a posticipare il suo rientro arrecandomi immensa soddisfazione, quell’ appagamento che si prova quando ci si sente utili.

Abbandonata la camicia da notte rosa che scoprii non essere affatto pregiata, mi dedicavo alle mansioni da casalinga riassettando le camere da letto quando la mattina non avevamo potuto farlo e mettendo in ordine la cucina.

 Di lì a poco, non fu difficile ottenere di restare al Turiolo per l’intera giornata. La mattina, un po’ per necessità e un po’ per ingannare il tempo, aiutavo la mamma nella preparazione del pranzo, ma soprattutto nell’organizzazione del paniere da portare al campo.

Ero ben attenta che nel cesto di vimini non mancasse niente: posate, bicchieri, piatti, una bella pagnotta avvolta in un canovaccio che doveva essere rigorosamente di cotone, un pezzo di formaggio o alcune salsicce sistemate in un vasetto che dovevano servire per lo spuntino pomeridiano, una bottiglia piccola con l’olio, un’altra con l’aceto e due barattolini, uno per il sale e uno per il pepe.

La preparazione delle pietanze rimaneva compito esclusivo della mamma e guai a strapparglielo!

Osservando le sue sciolte manovre riuscivo a supporre l’ora del distacco e, pur avendo desiderato ardentemente di districarmi da quel rito, mi assaliva un po’ di inquietudine nel vederla partire.

All’inquietudine si aggiungeva una sorta di senso di negligenza quando la mia redentrice era costretta ad intraprendere l’ostica salita senza compagnia.

Probabilmente dopo le prime paure del distacco anche lei si sentiva più libera e poteva procrastinare di qualcosa la partenza; in passato la mia presenza avrà sicuramente rallentato il modo di camminare!

 Appena la figura di Mamma si era persa tra la polvere, mi affrettavo a consumare il pasto e a riordinare la cucina per distendermi sul letto che era stato sistemato nella camera attigua.

Anche se di notte dormivo al piano di sopra, quella graziosa stanzetta a pian terreno mi attraeva parecchio tanto da averla eletta a mia camera ufficiale.

Verso le 13 i raggi del sole rallegravano il copriletto a fiori rossi ed arancione che la padrona di casa aveva cucito con la Necchi acquistata da poco.

Solo raramente socchiudevo gli scuri perché quella luce abbagliante ed il calore solare che si spalmava sul mio corpo mi inebriavano a tal punto da farmi sentire una principessa baciata dal più azzurro dei principi azzurri.

 Pur essendo soddisfatta di aver raggiunto una libertà quasi piena, iniziai a sperimentare le prime inquietudini. Lo spettro della solitudine a volte mi infagottava talmente da farmi sentire del tutto impotente.

 Il sentimento che saggiavo ora non aveva nulla di simile allo smarrimento che avevo provato in passato quando, dopo la morte del nonno, ero terrorizzata dall’ isolamento in cui era avvolta la casa al mio risveglio.

 Allora mi bastava una voce o un rumore per comprendere che non ero sola e riacquistare serenità.

 

Lo stato di abbandono non riguardava più un fattore esterno, si stava aprendo una fenditura profonda nella mia interiorità: la mia fanciullezza contraddistinta dall’ integrale fusione con la realtà familiare e sociale mi stava lasciando.

Iniziava il lungo e doloroso viaggio nel mio io più recondito, si avviava la scissione completa tra il mio essere ed il mondo esterno.