CAP 6 - Mondo contadino al lavoro

Ognuno si dedicava al suo podere prestandosi le opere con gli abitanti del nucleo più vicino. Noi facevamo “società” con i coltivatori delle borgate più vicine: Ca’ Giovanicola e Ca’ di Butteri.

Dopo la metà degli anni ’60 insieme a Giovacchino Bellucci ed Adriano Montini avevamo comperato una falciatrice che sostituiva il faticoso e lungo lavoro manuale del taglio dell’erba.

 I lavori in comune iniziavano verso aprile-maggio con il riassetto delle mulattiere che portavano ai prati alti infatti dopo le intemperie invernali, gli uomini si preoccupavano di risistemare le strade prima dell’inizio della fienagione.

 Ho sempre ricordato la partenza di quei contadini armati di zappe, vanghe, accette ed altri attrezzi del mestiere, come un evento allegro, forse perché rappresentava la fine dell’isolamento invernale.

Quando Giovacchino, Adriano e Dario arrivavano al Turiolo dopo aver sistemato i tratti di strada precedenti, si univano a loro anche il babbo e lo zio Renzo.

Io li accompagnavo per un breve tratto osservando il loro lavoro ed ascoltando i loro discorsi. Si parlava della scabrosità della stagione invernale, di questa o di quella nevicata, di questa o di quella ghiacciata mentre si zappava, picconava, si riportava la terra da una parte all’altra della strada.

Il pranzo se lo portavano tutti dietro per evitare di perdere troppo tempo e veniva consumato seduti sui sassi ai lati della sterrata, oppure sdraiati sotto un’ombra in un prato attiguo alla strada scegliendo un punto in cui l’erba non fosse ancora molto alta.

Nonostante la premura di continuare il lavoro, il minuto pasto veniva consumato con la regolare calma che caratterizzava la vita nelle nostre campagne: si approfittava di questo momento per ridere e scherzare, parlare della trascorsa gioventù, dei vecchi amori e magari anche per avanzare osservazioni un po’ spinte su alcune ragazze.

Mio babbo era un vero e proprio burlone, sempre pronto ad architettare beffe, a volte anche pesanti. Il Babbo si sarà divertito senz’altro a bucare con gli spini di nuova gettata le schiene dei compagni, oppure ad infilare qualche insetto innocuo nei magri tozzi di pane degli amici.

Di indole diversa, zio Renzo si faceva conquistare dalle stravaganti trasformazioni della natura ed approfittava di questi momenti di pausa per precipitarsi ad esplorare luoghi che non vedeva da tempo: quel gorgo nel fosso tale, quel melo che l’autunno precedente aveva elargito tanti frutti, quel pero che stava per morire…La sera mi faceva il resoconto delle sue ispezioni ed io rimanevo sempre incuriosita dal suo fiabesco modo di raccontare le cose.

Verso la metà di giugno, se la stagione era promettente, si iniziava a tagliare l’erba per il fieno.

 Quello del taglio dell’erba era un faticoso lavoro di braccia e non tutti gli uomini erano esperti e spediti allo stesso modo nel farlo.

Se l’erbaio era ampio occorreva l’impiego di parecchi falciatori che decidevano di comune accordo la striscia di erba da assegnare ad ognuno.

In fila, l’uno leggermente scostato in senso orizzontale dall’altro, si iniziava a stendere a terra il verde manto spesso arricchito da fiori di vari colori.

 

 Il vitto era a carico della famiglia proprietaria del campo. Le massaie si aiutavano, non tanto nella preparazione degli alimenti, quanto nel trasporto.  

Ricordo che Norina era una grande camminatrice ed era un enorme sforzo anche per la mamma stare al suo passo, soprattutto quando si trattava di affrontare le salite più ardue.

Il pranzo era sempre abbondante: come primo piatto una bella scodella di pasta al ragù, la carne veniva preparata spesso con il sugo in modo da renderla più appetibile.

Nel cesto non mancava mai qualcosa per la merenda di metà pomeriggio: un po’ di prosciutto, di formaggio o anche qualche pezzo di ciambella preparata in casa.

Al momento della falciatura, le donne si incamminavano verso la campagna solo per portare le vivande ai lavoratori e, dopo aver pranzato con loro, rincasavano.

Quando il calore aveva inaridito la parte esposta al sole occorreva rivoltare le zolle per fare in modo che si prosciugasse anche l’altra parte. Allora anche le donne, armate di forchetto, si mettevano all’opera e si trattenevano pure nel pomeriggio.

In tempi ancora più antichi le massaie tornavano a casa a prendere la merenda che poteva consistere in piatti meno costosi: acquacotta in padella, sugo di solo pomodoro con le uova rotte dentro e miscelate bene in modo da ottenere un impasto uniforme. Spesso quel pasto fungeva anche da cena, infatti gli uomini rincasavano dal campo a notte fatta e rimaneva solo da coricarsi in attesa dell’alba.

Ai tempi che ricordo le donne nel pomeriggio si fermavano ad aiutare gli uomini e tornavano a casa verso le 19,30 in modo da poter mungere le pecore e preparare un po’ di cena.

Quando ero piccola rimanevo anch’io fino a tarda ora per tornare a casa con la mamma. Mi piacevano quei prati così lontani da casa, mi incantava altresì pensare ai nostri alloggi rimasti pressoché vuoti ed al conseguente affollarsi di tutti quegli spazi aperti; era come se la vita si fosse spostata lassù nel regno indiscusso degli animali selvatici.

 Dopo il pasto ci si riposava tutti sotto una bella ombra ed era obbligatorio dormire o quantomeno appisolarsi.

Io non avevo mai voglia di farlo perché mi attraeva allontanarmi un po’ dagli adulti ed esplorare da sola gli spazi circostanti, un po’ come faceva lo zio Renzo, ma rimanevo vicina a loro perché sapevo che distanziandomi avrei acceso le loro ansie disturbando quel momento di sano e meritato riposo.

Allora mi accucciavo vicino alla mamma che mi teneva stretta teneramente fino al momento di tornare al lavoro.

Nonostante quell’abbraccio carico di affetto, la mia tranquillità finiva quando il vocio si quietava per lasciare posto al sereno riposo.

In quei momenti, lo spettro della solitudine che mi aveva iniziato a ferire da qualche anno, si riaffacciava nei miei pensieri. Anche dai campi vicini non proveniva alcun rumore perché quella era per tutti l’ora della siesta, dunque il mio cuore iniziava ad essere in tumulto e dovevo fare qualcosa per interrompere il sonno ora dell’uno ora dell’altro. Solo quando il prato aveva cominciato a rianimarsi, mi sistemava pacatamente all’ombra ad osservare le operazioni dei miei amici adulti.

Allorché il fieno si era ben disseccato da entrambe le parti, le donne usavano il rastrello per radunarlo nei siti più comodi dove veniva ammucchiato in cataste fatte ad arte di contadino. Gli uomini in genere adoperavano di più il forchetto e forgiavano quei cumuli il cui scopo era quello di facilitare l’operazione successiva cioè il trasporto verso casa del fieno.

I mucchi di fieno, oltre a ridurre le numero delle fermate all’interno del fondo quando lo si veniva a prendere per sistemarlo nell’aia, avevano lo scopo di ridurre i danni che poteva causare la pioggia. Ricordo di aver letto la gioia negli occhi dei lavoratori ogni volta che si finiva di ammucchiare il foraggio, ho memoria di aver sentito tante volte pronunciare queste parole:

-Adesso, anche se dovesse piovere, siamo più tranquilli! -

Spesso mi avvicinavo ad uno dei miei famigliari per chiedere se potevo provare ad usare il rastrello oppure il forchetto, non mi si diceva mai di no e mi si mandava a prendere un attrezzo più leggero che poteva essere maneggiato con maggiore facilità. Comunque il mio ghiribizzo si conservava ben poco perché le membra non reggevano tale sforzo. Pertanto, per non deludere la mia volontà di rendermi utile, mi si spediva a prendere il fiasco dell’acqua che era rimasto appoggiato all’ombra di qualche pianta.

Quando percepivo che le fatiche li prendevano smisuratamente da non essere del tutto attenti alla mia persona, osavo allontanarmi un po’ per andare a perlustrare i dintorni.

Mi piaceva rannicchiarmi soprattutto dietro a quei cespugli che non conoscevano le nostre chiacchiere perché non li sceglievamo mai come riparo durante il pranzo o la merendina pomeridiana…questa cosa mi appariva una grossa ingiustizia e mi sentivo come in dovere di andarli a trovare!

Quando trovavo uno spazio abbastanza grande già libero dall’erba, assaporavo il piacere di intraprendere brevi corse lontana dagli sguardi altrui.

Dai sei agli undici-dodici anni non mancavo mai ai riti annuali della fienagione e della mietitura. D’altra parte nella stagione estiva anche i legami con gli amici di Rofelle si indebolivano, un po’ a causa della lontananza tra un gruppo di case e l’altro, ma anche perché ognuno di noi seguiva i propri genitori nei campi.

 Pure i fratelli Butteri, al loro ritorno estivo, erano attesi dai nonni e venivano trascinati nel vortice delle faccende campestri.

Solo dopo la trebbiatura ci ritrovavamo per riprendere i nostri trastulli.

 Proprio in quegli anni si realizzò la trasformazione dal lavoro puramente manuale, assistito dal bestiame da traino, alla meccanizzazione.

I primi trattori portarono senz’altro un mutamento epocale ed un sollievo per uomini ed animali.  

La forza motrice, come quella animale, veniva spesa in ogni stagione per trainare aratri, erpici e rimorchi. Prima della comparsa di questi ultimi per il trasporto venivano usati due strumenti rudimentali che restano vivi nelle mie reminiscenze di fanciulla agreste: la treggia e la civea che gli uomini del Turiolo avevano sempre costruito da soli.

 Il babbo mi rende conto che non tutti i coltivatori possedevano l’ingegno di costruire quei mezzi ed allora si ricorreva all’aiuto di amici e vicini, la prestazione doveva essere ricompensata copiosamente perché l’intervento era molto delicato e richiedeva tempo, pazienza ed anche energia.

 Il babbo e, ancor prima il nonno, esperti nella fabbricazione degli antichi rimorchi, iniziavano con la ricerca della pianta più idonea che veniva squarciata per modellare le varie parti.

 Per la realizzazione della civea era necessario trovare del buon vinco che veniva intrecciato a professione di contadino per sagomare una grossa cesta dalla forma ovale. Con la civea si poteva spostare grano, granturco, concime, patate…

 Diversa era la funzione della treggia che veniva utilizzata soprattutto per il trasporto del fieno.

Ero ancora molto piccola quando il babbo e il nonno nel periodo primaverile, iniziavano a sistemare le tregge che le intemperie invernali, ma anche il logorio dovuto al trascinamento, avevano rovinato ora in una, ora in un’altra parte.

  Entrambi di indole pacifica, portavano a compimento la loro opera di restauro con me accanto.

Dopo i tre anni, età in cui iniziai a muovere i primi passi, il babbo mi prendeva per mano per condurmi vicino alla treggia, poi mi sollevava e mi sistemava nello spazio vuoto che si veniva a forgiare tra le assi, sostenendomi con le mani da entrambe le parti, iniziavo a sveltire i miei passi, esortata da quei due alleati che continuavano il loro lavoro.

Anche l’aia doveva essere preparata per ospitare il via vai estivo.

Prima di tutto si accertava la robustezza degli stulli valutando se potevano essere utilizzati ancora, oppure se occorreva rimpiazzarli.

I capanni di una volta non erano molto ampi e anche se il podere era ridotto, lo spazio interno non bastava mai per riporre fieno, paglia e fascine. Si sopperiva a questo piantando nei punti più comodi dell’aia pali di legno alti anche quattro metri ed oltre, appunto gli stulli attorno ai quali i coloni sapevano ben sistemare le provviste generate dalle loro fatiche estive. 

Nella nostra aia gli stulli erano tre: per il fieno, per la paglia e per le fascine. Realizzarli non era cosa semplice e le fasi di lavorazione erano faticose: prima di tutto occorreva andare nel bosco a scegliere una pianta adeguata che doveva essere quasi perfettamente rettilinea e priva di protuberanze e fenditure, si sceglieva un tipo di legno resistente, cerro oppure faggio.

Quando il palo era stato escoriato e convenientemente limato, si poteva provvedere alla sua sistemazione definitiva.

Issare il palo creava un tale animazione tra uomini e donne del vicinato ed era certamente un palcoscenico invitante per noi bambini, anche se gli uomini ci raccomandavano di rimanere a debita distanza soprattutto nel momento più cruciale.

Ricordo il babbo che, con le sue braccia massicce, scavava la buca mentre lo zio portava nell’aia un tizzone ancora ardente per accendere il fuoco.

 A questo punto il palo veniva sollevato usando un grosso ciocco in modo che la parte destinata a rimanere sottoterra si potesse bruciacchiare e poi gli uomini si preoccupavano di far ruotare ogni tanto il grosso legno sul falò perché quella scottatura potesse interessare l’intera circonferenza inferiore.

Ma la robusta pertica non era ancora pronta per essere sistemata nel suo sito, doveva subire ancora un trattamento che può accendere nausea, ma i lavoratori della terra conoscevano troppo bene le insidie della natura e architettavano i sistemi più strani per difendersene: per impedire che le tarme intaccassero il piedistallo si cospargeva di letame diluito con acqua.

Entrambe le operazioni servivano alla sana conservazione della parte da interrare.

 Arrivava il momento più critico…gli uomini usavano con grande abilità una scala a pioli e, proprio facendo scorrere il palo su questi, si otteneva la sua completa sollevazione.

Ora si doveva badare alla stabilità completa della stanga per cui si iniziava a pressare la terra intorno, risistemando la posizione; in questa fase diventava determinante il giudizio degli estimatori che continuavano a squadrare l’oggetto e a prestare suggerimenti.

Il compito si considerava terminato quando gli ammiratori consacravano il loro benestare; a questo punto le donne si affrettavano ad andare a prendere da bere e magari qualcosa da mangiare per dare ristoro a chi aveva dovuto spendere tanta fatica.

Finito di raccogliere il fieno si presentava sempre lo stesso problema cioè continuare nella falciatura oppure portare nell’aia il fieno già pronto in modo da metterlo ancora più al sicuro?

Questione arcaica, dilemma che si ripete ancora nel nostro tempo, era della motorizzazione.

Oggi quando la mamma deve seguire tutti i bollettini meteorologici per poi discutere con i due maschi su cosa convenga fare, mi fa sorridere come l’uomo moderno sia dominato dai mezzi di comunicazione ...eppure sono le stesse persone cinquanta anni fa risolvevano la faccenda con regole molto genuine, consegnandosi anche alla Provvidenza Divina.

Negli anni della mia fanciullezza il calendario di Frate Indovino a quello di Barbanera giravano in tutte le case contadine e supplivano degnamente i Colonnelli dell’Aeronautica ai quali mia mamma si vota.

Anche gli animali domestici concedevano grida o modi di comportarsi particolari in occasione dell’avvicinarsi della pioggia.

 I villani avevano una tale confidenza con il firmamento che sapevano interpretarne segni, ad esempio come tramontava il sole, da che punto cardinale spuntavano i primi nuvoloni e, addirittura che forma avevano.

Fatto sta che, in tempi più remoti, quando si decideva di portare a casa il fieno, si iniziava con la preparazione delle viture, una treggia carica di fieno corrisponde ad una vitura.

L’ antico mezzo di trasporto veniva portato nel campo interessato ancora prima che il fieno fosse pronto, a volte anteriormente alla falciatrice stessa.

 La mandria veniva fatta pascolare in un agro vicino in modo da facilitare il recupero delle bestie dome al momento giusto. La mansione di solito spettava a zio Renzo che con gli animali ci sapeva fare perché li amava.

Lo zio partiva con gli strumenti adatti: una grossa corda detta paiale e due ferri contorti in modo veramente particolare, le frogette.

Il più delle volte non era complicato ripescare il branco, soprattutto perché si sceglievano le ore più calde durante le quali le vacche si erano rifugiate nei boschetti e stavano tranquillamente ruminando.

Può apparire strano, ma lo zio mi dà notizia che le giovenche abituate a tirare lo stesso giogo, spesso stavano vicine anche al pascolo specialmente nei momenti di siesta e si aiutavano reciprocamente a scacciare le mosche dal muso con i movimenti delle code.

 Alcune bestie intendevano subito le intenzioni del padrone e si avvicinavano per farsi legare le corna, mettere le frogette ed appaiare.

La stessa manovra poteva risultare più ardua specialmente se gli armenti avevano preso “la mosca”. L’espressione veniva adoperata per spiegare una situazione di particolare agitazione che si produceva nel branco quando nelle giornate oltremodo afose iniziava un ronzio fastidioso all’udito dei poveri animali generato da un certo genere di mosca. La mandria sembrava impazzita, scorrazzava da una parte all’altra della pastura ed allora diventava veramente impossibile ghermire i quadrupedi domi.

In situazione normale, lo zio tornava con gli animali già accoppiati che venivano fatti avvicinare subito alla vitura per applicare il giogo ed agganciare la treggia… quando tutto era pronto, si partiva.

 Mi pare che non si partisse mai o solo raramente con una sola vitura.  Le vie rurali risuonavano allora dei rumori procurati dal calpestare degli zoccoli e dallo strofinio della treggia nel terreno. Agli uomini non si addiceva sprecare molte parole per non irritare i bovini, ma anche per la concentrazione che richiedeva guidare il carico ed anche prestare attenzione che la vitura rimanesse intatta e il legnoso attrezzo non si capovolgesse.

Arrivare nell’aia con il carico senza aver avuto nessun genere di problema, costituiva un traguardo degno di essere festeggiato con un bicchiere di buon vino che in casa nostra non mancava mai.

Solo quando si iniziava a sorseggiare il nettare di bacco ci si rendeva conto di avere la bocca impastata dalla polvere che il carico e gli zoccoli degli animali avevano sollevato durante il percorso.

Nell’aia le mansuete collaboratrici dell’uomo venivano liberate dal giogo.

Se si prevedeva di ripartire di lì a poco si lasciavano legate fissando l’estremità della corda ad un anello di ferro bloccato nel muro esterno del capanno, in questo caso si nutrivano con il fieno sottratto al carico.

Se la giornata volgeva al termine, o per qualsiasi altro motivo, non si immaginava di rimettersi in cammino, le ubbidienti lavoratrici venivano condotte in un pascolo vicino all’aia e riconsegnate alla libertà.  

Da ragazza anche la mamma aveva tirato più volte il carico fino a casa ed aveva aiutato i fratelli a recuperare gli armenti che erano al pascolo. Nei primi anni di matrimonio continuò a agire allo stesso modo anche nella famiglia del coniuge.

La consuetudine si interruppe alla mia nascita.

Io ero bisognosa di cure più che ogni altro bambino quindi la mamma si occupava di me, della casa, degli animali da cortile che allevava sempre in copiose quantità e dell’orto.

Quell’anno il nonno iniziò ad avere problemi di deambulazione, gli faceva fatica camminare soprattutto nelle strade accidentate quindi si occupava sempre meno dei lavori nei campi.

 Continuava a fornire il suo appoggio alle faccende dei figli solo quando si agiva in un terreno vicino all’abitazione e comodo da raggiungere.

L’estate successiva alla mia nascita il nonno ormai non si recava più nei campi, quindi la mamma iniziò ad affidarmi a lui per tornare ad aiutare gli uomini. Naturalmente non si tratteneva fuori casa per l’intera giornata, magari saliva verso i prati alti con il pranzo e faceva ritorno nel primo pomeriggio.

 A poco a poco cominciò a fermarsi con gli uomini sempre di più avendo acquisito tranquillità nell’accertare che con il mio saggio compagno ero al sicuro.

Nel periodo delle incombenze rurali più pressanti, ci raggiungeva Gemma, mia nonna materna che viveva insieme allo zio Benedetto in una piccola borgata di case vicino a Pennabilli.

La nonna era ancora sana ed attiva, certamente non sarebbe stata più in grado di sostenere il duro lavoro dei campi, ma il suo arrivo alleggeriva notevolmente le molteplici responsabilità della mamma che si sentiva più libera di rimanere fino a tardi nei campi con il babbo e lo zio.

 Ad occuparsi di me era sempre nonno Bastiano, tuttavia la presenza di nonna Gemma tranquillizzava tutti perché a casa c’era una persona più sciolta nella deambulazione che in caso di bisogno sarebbe stata in grado di offrire un efficace aiuto.

 La Nonna si occupava degli animali domestici, dell’orto, della preparazione del bucato e anche della cena. Se lo zio Benedetto non reclamava il suo ritorno, a lei piaceva rimanere con noi perché era amata e rispettata da tutti, inoltre poteva trascorrere qualche tempo al suo paese natio.

Le occupazioni maschili erano sicuramente più spossanti, tuttavia anche alle donne si richiedeva una energica resistenza fisica per potenziare tutte le faccende agresti.

Non dobbiamo dimenticarci che la donna era “la regina del focolare” e la famiglia aveva bisogno di lei soprattutto per l’attenzione da riservare alle faccende di casa …Un antico proverbio proferisce “Con l’ago e la pezzuola si manda avanti la famigliola”.

Parole difficili da comprendere per le nuove generazioni abituate ad avere denaro a disposizione per comprare abiti adatti per ogni occasione, ma a quei tempi di denaro ne transitava poco soprattutto nelle tasche della povera gente e il lavoro dei campi arrecava rotture frequenti in quei miseri vestimenti.

Era necessario che le donne di casa fossero abili nel rattoppare, allungare, scorciare, lavorare a maglia in modo che i vestiti potessero resistere nel tempo e essere mantenuti da una generazione all’altra.

Di solito erano le donne più anziane a dedicarsi ai rammendi, ma in casa nostra la mamma era sola e, pur essendo abile con l’ago ed i ferri da maglia, in estate non era possibile che potesse ricavare anche il tempo per questo genere di lavori.

A gravare sulla mamma, come su quasi tutte le donne delle nostre campagne, c’era anche la cura del gregge.

La presenza di nonna Gemma ci lusingava in ogni periodo dell’anno, ma ad un certo momento della lunga estate, ci appariva fondamentale.

Verso la metà di luglio, la stanchezza si faceva ormai sentire pesantemente sia per gli uomini che per le donne. Ma la bella stagione si presentava ancora molto lunga e densa di fatiche.

Se il fieno era importante per la sussistenza del bestiame, la raccolta delle messi rappresentava il momento in cui ogni famiglia poteva valutare il consistente o infame guadagno di una intera annata di faccende.  

Le granaglie avevano molta importanza sia per l’alimentazione umana che per quella del bestiame allevato, perciò i terreni più grandi e comodi venivano seminati a grano, orzo e avena.

Pur essendo ancora indaffarati nel seguire il buon essiccamento del foraggio, non si perdevano mai d’occhio i mutamenti di colore dei seminati allo scopo di non farsi sfuggire il momento giusto per iniziare la mietitura.

Quando le messi avevano raggiunto un bel color oro era l’ora di iniziare a preparare le falcette.

 All’imbrunire capitava spesso di sentir risuonare il rumore del ferro battuto: questa manovra serviva per rimuovere tutte le lussazioni subite dalla parte tagliente restituendola alla sua originaria funzione. 

Seguiva poi la “pietratura”, sempre affascinante per noi ragazzi: una speciale pietra bagnata con l’acqua oppure con la saliva, veniva strofinata lungo tutta la parte tagliente per “ridare il filo” cioè fare in modo che si rinnovasse l’affilatura.

Ad attizzare la nostra curiosità era soprattutto un corno di bovino svuotato all’interno che gli uomini erano soliti portare appeso alla cintura dei pantaloni per mezzo di un gancio di ferro chiamato uncino.

Nel corso della “pietratura”, il corno veniva riempito d’acqua che serviva per bagnare la pietra. Ora l’arnese era pronto per essere adottato nello stadio forse più importante di tutta l’annata.

I coloni più esperti andavano a controllare che la spiga fosse asciutta al punto giusto e davano il loro benestare all’inizio di quel rito così importante.

 Dunque il seminato si animava di uomini e di donne abili nella mietitura: i falciatori si muovevano lasciando dietro tanti fastelli di spighe ancora sciolte che dovevano essere legate tra loro con maestria dal legatore.

Questo abile colono componeva il “balzo” con due mazzetti di spighe che venivano adagiate sul terreno mietuto, sopra veniva sistemata la quantità di spighe necessaria per forgiare un “covone”.

Di solito si aspettava di aver ultimato l’opera, per iniziare ad ammucchiare i covoni e comporre i cavalletti. In ogni cavalletto si ammucchiavano 12 covoni, disposti in quattro file, l’uno soprapposta all’altra: con i primi tre, depositati sul terreno appena reciso, si sagomava una specie di stella a tre punte, poi si continuava a sovrapporre quei fastelli fino ad aver forgiato una pila di 12 fasci di spighe.

In tempi più lontani, quando il pasto serale veniva consumato nel campo si rimandava l’ultima fatica al dopo cena, per poi rincasare lentamente e donarsi al meritato riposo.

La preparazione della battitura rappresentava un momento vitale.

 Ci si passava voce per sapere in quale aia era la macchina, in modo da rendersi conto quanto tempo c’era da attendere.

Anche le donne fremevano per l’organizzazione dei pasti e ho memoria di avere assistito a più di una discussione tra i familiari dei due sessi perché le massaie avrebbero preteso di conoscere, non solo il giorno, ma addirittura l’ora precisa in cui la macchina sarebbe arrivata nell’aia.  

Se le condizioni meteorologiche erano favorevoli, non era poi tanto difficile fare il conteggio, il tutto però si complicava se iniziava a piovere.

Mia mamma ricorda che, quando era ancora ragazza, la trebbia ha sostato nella loro aia per tre giorni.  Naturalmente, in queste situazioni, gli uomini del vicinato se ne tornavano a casa ma coloro che avevano seguito l’intera battitura ed i macchinisti sostavano presso la famiglia; in questi frangenti le casalinghe si davano un gran daffare per rimediare un vitto abbastanza variato.

Se il cielo era clemente, nel giro di un giorno veniva mondato il raccolto di tre aie soprattutto se di piccole dimensioni come la nostra.

Per il “barcone” non veniva usato alcun “stullo”.

La maestria dei villani era tale che riuscivano ad accomodare il raccolto in un’unica catasta a forma di cilindro, un solido che si innalzava in modo regolare, la cui sommità sembrava un tetto i cui spioventi erano formati dalle spighe sistemate con la testa all’esterno. Tale tettuccio aveva una funzione speciale: riparare il resto dalla pioggia.

Il grande apparecchio arrivava nella nostra frazione dalla strada carrabile che era stata ultimata fino alla parte alta del paese dopo il 1957.

I possidenti che dimoravano nelle borgate prossime al fiume prendevano accordi con i vicini di San Patrignano e con loro si scambiavano opere per essere i primi a sistemare il mietuto.

Nonostante si fosse pattuito di impostare l’operato un anno dal basso e l’anno successivo in senso inverso, di fatto la trebbiatrice si fermava nelle aie che incontrava nel suo procedere verso nord, quindi il Turiolo era sempre l’ultima fermata.

 Del resto si procedeva in quel modo anche perché “quelli di Rofelle basso” avevano potuto cominciare prima la raccolta delle messi.

Rofelle è sempre stato caratterizzato dalla presenza di poderi di medie dimensioni per cui in un solo giorno era possibile spostarsi anche in tre luoghi, quindi si procedeva con adeguata celerità.

Era necessario però che ci fosse la collaborazione non solo tra le borgate vicine ma anche quelle più lontane, perché per far funzionare il macchinoso procedimento della battitura occorrevano almeno 20 uomini.

 Si cercava di terminare in fretta la mietitura per andare a prestare opera, in modo da esserne ricambiati al momento giusto. Anche il babbo e lo zio si recavano a lavorare nell’aia di turno.

Mentre la macchina veniva piazzata al punto giusto dal macchinista e dai suoi aiutanti, gli altri uomini si accordavano sulla ripartizione delle numerose mansioni.

Il ruolo di alcune persone era già stabilito da anni e non si intendeva cambiarlo, sia per volontà dell’interessato che per una sorta di fiducia nella competenza acquisita anno dopo anno.

 Altri invece preferivano cambiare esercizio e ci si scambiavano i compiti anche in itinere.

All’accensione tutti dovevano avere preso il loro posto.

Cinque e sei uomini si piazzavano sul “barcone” per consegnare i covi agli imbocchini, tra questi ne veniva scelto uno abile nel rimuovere velocemente il balzo.  

Per la pula bastava una sola persona che doveva procurarsi un lenzuolo per raccattare le polverose eccedenze e quando nel panno era stata raggranellata una quantità consistente si provvedeva all’ allacciatura degli estremi opposti per foggiare un grosso sacco il cui contenuto doveva essere depositato in un cantone prescelto del capanno.

Si trattava certamente di uno dei compiti più ingrati poiché la polvere penetrava dappertutto, dopo un po’ anche il palato e la gola sembravano arsi e sopraggiungeva la necessità di togliersi la sete.

Un particolare lo ricordo con chiarezza assoluta: anziché usare il cappello, il capo veniva riparato con il fazzoletto legato alle due estremità opposte del cranio, quel panno aderiva perfettamente e custodiva in modo migliore la testa.

Anche i quattro o cinque uomini eletti a sistemare la paglia intorno allo stullo usavano il fazzoletto: si doveva prestare attenzione nel liberare velocemente la bocchetta che sputava paglia per non causare una occlusione che avrebbe potuto bloccare tutto il meccanismo. Questa era la prima attenzione da adottare, tuttavia la cosa diventava sempre più complicato man mano che il pagliaio si innalzava per cui gli uomini che rimanevano a terra cercavano di allungare sempre più le forcate, ma quanto questo non era più possibile si ricorreva alla scala a pioli sulla quale salivano gli uomini più abili.

Lavoro ambito, non tanto per risparmiare fatica, quanto per stare a contatto con le donne di casa e frodare qualche bicchiere di vino in più, era quello del trasporto dei sacchi colmi di cereali nei magazzini.

I più giovani e gagliardi svolgevano il compito con una allegria che contagiava anche le ragazze di casa.  Per rendersi interessanti i ragazzi davano vita ad una sorta di gara di velocità nello svuotare i sacchi di messi nei magazzini; portare più fardelli significava vedere più spesso le ragazze che, anche se impegnate nella preparazione delle vivande, si concedevano a burle non sempre del tutto ingenue.

 La presenza di tutti quei giovani che stavano a contatto con il bel sesso dava vita un clima brioso che contribuiva ad alleviare le fatiche di quelle lunghe giornate di lavoro senza sosta. I più anziani che, anni addietro avevano svolto la stessa mansione ed intrecciato gli stessi rapporti confidenziali, si burlavano ora dei loro giovani colleghi:

-Attento che ti accasi presto! - ed ancora

-Tra nove mesi “vieremo” quel vinello…-…ecc.

A queste canzonature i più pavidi non resistevano e rinunciavano al loro ruolo di privilegio.

La battitura rappresentava l’evento più rilevante di una intera annata di lavoro, per cui, anche a costo di ingenti sacrifici, le vivande dovevano essere abbondanti e soprattutto nutrienti.

Verso gli anni sessanta era ormai entrata nella tradizione l’usanza di uccidere l’agnello per cucinarlo nei giorni della battitura.

Se lo strumento era già piazzato, gli uomini arrivavano molto presto per cui le massaie si premuravano di dare il benvenuto ai lavoratori con un primo spuntino costituito da pane e formaggio, a volte anche salsicce e qualche pezzo di ciambella cotta nel forno a legna.

Verso le 8,30-9 la fame già incalzava…era arrivata l’ora della seconda colazione.

L’ attività veniva sospesa e per tutti i braccianti c’era un posto nell’umile tavola che veniva imbandita in casa.  Si offrivano piatti semplici ma un po’ più elaborati tipo acquacotta in padella, pomodorata, oppure frattaglie dell’agnello cucinate con abbondante cipolla e lardo di maiale, il piatto denominato “frittura di agnello” era di solito assai gradito.

Pur sedendosi a tavola, i salariati avevano sempre un po’ di fretta perché la giornata lavorativa era ancora molto lunga. Magari era già stato fatto il calcolo delle ore che servivano a terminare l’aia, ma si dovevano tenere in conto eventuali guasti…per cui era bene ricominciare il prima possibile per poter gustare con più calma il pranzo delle dodici.

In cucina non c’era di certo meno animazione: il pranzo doveva essere pronto per mezzogiorno, mezzogiorno e trenta al massimo e si doveva anche aver cura che ai giovani portatori delle messi non mancasse mai il fiasco del vino.

Per fortuna Norina aiutava sempre, come pure alcune parenti che trascorrevano l’estate a Rofelle e, nel fiorir della giovinezza, consideravano quella circostanza un’occasione di incontro con i giovani dell’altro sesso.

Io cercavo di nascondermi perché quel gran via vai mi imbarazzava e l’acuto rumore di quel mastodontico marchingegno mi dava angoscia.

Quando ero ancora piccolina, per non dare fastidio alle donne e non rischiare di essere investita dai quei giovincelli, mi rifugiavo in camera mia, oppure mi allontanavo dall’aia sistemandomi in una posizione dalla quale potevo osservare tutto l’operato.

Verso gli undici anni la mamma iniziò a chiedermi sostegno almeno per le faccende più facili, così mi chiedeva di portare il fiasco vicino a questo o a quello, di controllare che ai portatori non mancasse mai il vino…

Io non amavo disubbidire alla mamma, tuttavia farmi vedere dagli estranei mi creava un tale imbarazzo che avrei preferito rinchiudermi in camera senza acqua né cibo.

Se poi qualcuno mi rivolgeva la parola per ringraziarmi oppure proferirmi qualche apprezzamento, era la fine: diventavo paonazza, abbassavo lo sguardo e me ne andavo.

Credo che fossero principalmente due le cose che mi mettevano in imbarazzo: la mia precaria deambulazione, ma anche la contesa tra il mio corpo che aveva assunto ormai le forme adolescenziale e la mia anima rimasta ancora fanciulla.

Ricordo di aver provato più volte vergogna per quei seni cresciuti prematuramente e per quei fianchi forgiati già a sembianza di una donna, cosicché anche lo sguardo più innocente se proveniva da una persona di sesso maschile, mi sconvolgeva a tal punto da provare solo il desiderio di fuggire.

La mamma, che intendeva tutti i miei timori, cercava di proiettarmi verso gli altri nella speranza che potessi conquistare uno spirito sociale positivocosì come era il suo.

 Io invece mi comportavo in maniera contraria alle sue aspettative, dopo aver assolto il dovere al quale ero stata chiamata, me ne tornavo in camera e ce ne voleva di pazienza anche per farmi sedere a tavola con gli uomini per consumare i pasti.

Mia mamma era ancora giovane e Norina, pur essendo nata qualche anno prima, era una donna forte e intraprendente.

Le due donne riuscivano ad imbastire anche un buon pranzetto per quella tribù di uomini affamati.

 La pasta condita con un buon ragù di carne di pollo o di oca, rigorosamente battuta sulla battilarda non doveva mai mancare, anzi era opportuno che ce ne fosse in abbondanza per accontentare velocemente le fameliche bocche.

 Saziati con il primo piatto, ci si accontentava poi di un pezzo di carne di agnello, oca o pollo accompagnata da un equilibrato contorno di verdure dell’orto: fagiolini, patate, zucchine.

 La sera non doveva mai mancare un buon brodo di gallina nel quale venivano cotti i quadruccini fatti in casa.

Come secondo piatto si utilizzava la carne che era servita per il brodo accompagnata dalle solite verdure, prodotti dell’orto di casa.

Non mancava mai, almeno in casa nostra, del buon vino che veniva gustato da tutti con grande avidità soprattutto la sera quando non si era più guidati dalla preoccupazione di riprendere in fretta la faccenda.

Il giorno successivo appariva lontano e lasciarsi andare al brio era estremamente piacevole al punto tale che la brama del riposo notturno passava in secondo piano. Ci si burlava l’uno dell’altro, ci si saggiava sulla forza fisica oppure si parlava di femmine e di prestazioni sessuali in termini anche molto coloriti.

Le donne di casa avrebbero gradito che il locale si fosse liberato al più presto per iniziare a riassettare.

Fatto sta che la sera della battitura era oltremodo prolungata ed io, quando non osavo ancora salire al piano superiore da sola, mi ricoveravo nella stanza attigua alla cucina e me ne stavo ad ascoltare quei discorsi, per me incomprensibili; provavo anche una sorta di panico quando qualcuno principiava a sfidarsi.

 La mia trepidazione era arrecata dalla paura che il babbo e lo zio rimanessero in qualche modo sinistrati; ma un male ancora più intenso si impadroniva di me: i miei due paladini mi avevano completamente ripudiata per gozzovigliare con quella marmaglia!