Anche dopo la morte del nonno il Turiolo continuò ad essere frequentato dalle persone anziane del vicinato che trovavano nella nostra casa sempre una grande ospitalità, un bicchiere di vino ed un tozzo di pane con il buon pecorino prodotto in famiglia.

Cecco, nonno paterno dei fratelli Butteri, è forse la persona che ricordo con maggiore nitidezza sia perché le sue visite erano abituali, sia per la particolarità della sua figura. L’ avventore si vestiva estate e inverno più o meno allo stesso modo: maglia di lana dalle maniche lunghe, panciotto e pantaloni di fustagno ed una giacca, anch’essa di panno pesante. In inverno tra il panciotto e la maglia di lana indossava una camicia a quadretti, ma il cappello non se lo toglieva mai, nemmeno quando entrava in casa altrui.

Nonno Cecco sosteneva che ci si poteva difendere dal freddo e dal caldo alla stessa maniera. Il suo arrivo non ci coglieva mai di sorpresa, a parte che ormai conoscevamo l’orario delle sue visite, sembrava che si volesse annunciare con una specie di cantilena che iniziava ad emettere quando era in prossimità dell’uscio di casa. Non chiedeva mai il permesso di entrare, forse per questo si annunciava con quella specie di nenia. La mamma lo accoglieva sempre con le stesse parole:

-Cecco, come va oggi? -

Non era una persona abituata a lamentarsi per sé stesso, il colloquio si dipanava tra il racconto dei malanni della moglie e quello delle vicende della vicina Ca’ Giovanicola.

Nel resoconto di queste ultime impegnava una tale intensità da farlo sembrare sempre in astio con i vicini di casa, si trattava più che altro di un suo modo di analizzare le vicende. Abituato a vivere nella miseria e nell’asprezza quotidiana di chi non sa come sfamare la prole, ora che figli e nipoti si erano sistemati alla meglio, si dilettava ad osservare la vita degli altri mettendo in discussione l’operato di quelle famiglie che erano riuscite ad emergere dall’atavica indigenza, ma anche di quelle persone che vivevano ancora in maniera fin troppo umiliante in rapporto allo sviluppo della società.

Cecco leggeva molto ed era informato sulle vicende nazionali ed internazionali. Convinto comunista e miscredente, era abbonato a Famiglia Cristiana, andava a tutti i funerali e non poteva fare a meno, la domenica, di intraprendere una partita a “Scopino” con Don Francesco, il parroco del paese.

In casa nostra si parlava spesso del miserevole passato di Cecco e della moglie: il podere era piccolo e quel poco che si poteva ricavare doveva essere diviso con il fratello. Di soldi non se ne parlava nemmeno e spesso era impresa ardua trovare di che sfamare i figli. La moglie Aldina era spesso ammalata e non poteva assistere come avrebbe voluto la prole. Ben presto i figli maschi cominciarono ad andare a lavorare chi in Maremma, chi in Sardegna. La figlia minore Isena era grande amica della mamma insieme andavano a strappare i batuffoli di lana di pecora dalle fratte per poi vederli ai commercianti. 

Altro cliente della nostra casa era Giovannino Montini, anche se la frequentava in maniera più sporadica di Cecco.

Dai modi più austeri, l’ospite veniva soprattutto per parlare dei lavori con gli uomini e poco gli interessavano le occupazioni e le compagnie femminili. Con me aveva una sorta di confidenza da nonno buono, da consigliere discreto. Ricordo qualche passeggiatina fatta con lui intorno alla nostra casa, una volta scoprimmo che ad entrambi piaceva mettere in bocca la neve e gustare l’effetto del suo liquefarsi al contatto con la saliva e allora nonno Giovannino mi insegnò a scegliere i punti giusti dove prenderla.

 Questo è l’ultima memoria che ho di lui, infatti poco dopo si ammalò di un tipo di influenza che si diffuse da noi con il nome di “spagnola” e, conseguentemente a questa, ci lasciò per tornarsene al creatore.

Il più tenero verso tutta la famiglia era rimasto il nonno Nanni. Giovanni era cugino di primo grado di nonno Bastiano.

Vissuti nella stessa casa di Ca’ di Butteri con le rispettive famiglie fino al 1935, i cugini erano rimasti uniti nell’anima da un profondo sentimento di stima pur essendo di indole completamente diversa.

Il nonno non amava molto allontanarsi dal suo regno del Turiolo, preferiva dedicarsi ai lavori dei campi e aveva delegato ben presto mio babbo alla gestione di tutta l’azienda infatti era il babbo che si recava alle fiere del luogo concludendo affari che il vecchio approvava sempre.

Fino al 1945 era stato sempre il bisavolo Lorenzo ad occuparsi della gestione degli affari. Lorenzo era un uomo molto scaltro, ai mercati si dilettava nell’esercizio del mestiere di sensale ed aiutava i contadini meno esperti a concludere gli affari con i commercianti.

Alla morte del padre, mio nonno aveva quasi 47 anni e non osò intraprendere una mansione che non era mai stata sua.

 Il cugino aveva vissuto circostanze del tutto diverse: suo padre era morto nel lontano 1929 e da quel momento era stato costretto a svolgere il ruolo di capofamiglia e gestore della piccola azienda. Il suo maestro era stato senz’altro il bisnonno Lorenzo che ben aveva insegnato al nipote piccole astuzie per trattare con i commercianti, ma anche un modo di vivere segnato da un indirizzo preciso: non far mancare alla famiglia niente di quello che poteva rientrare nelle possibilità e non mancare mai di aiutare i più poveri. Credo che Giovanni fosse rimasto così affezionato al cugino anche per una sorta di riconoscenza verso Lorenzo dal quale aveva assimilato veramente tanti insegnamenti.

Nonno Nanni continuò a venirci a fare visita anche dopo la morte di Bastiano. Anche se tra i due cugini ci fossero solo due anni di differenza, Giovanni dal fisico asciutto, dall’andamento slanciato e dalle membra vigorose, continuò ancora per molti anni a lavorare nei campi.

 Quando passava per andare al lavoro nei prati alti, non mancava mai di elargirci un saluto.

In inverno, quando le occasioni per passare da casa nostra venivano a mancare, l’attempato consanguineo partiva intenzionalmente per farci visita. Le sue scappate ci facevano sempre immenso piacere soprattutto per il modo dolce con il quale le giustificava:

_Sono venuto a vedere cosa fanno i “miei”!

“Miei” parola traboccante di significati radicati in un passato vissuto insieme all’interno di una famiglia allargata il cui smembramento appariva ancora come forzatura.

Le sere d’inverno gli uomini del vicinato si riunivano a casa nostra per giocare a carte, soprattutto nel periodo di carnevale.

Nella mia fanciullezza la cosa mi dava enorme fastidio, quegli uomini che giocavano a carte con babbo e zio Renzo diventavano i miei più temuti rivali perché distoglievano da me l’attenzione dei miei due eroi. Inoltre verso le nove di sera iniziavo ad avere sonno ma non osavo salire al piano di sopra senza il babbo o la mamma.

A poco valevano le parole di quest’ultima che, con infinita pazienza, si prodigava per farmi capire che la camera si trovava proprio sopra la cucina ed il pavimento a tavole mi avrebbe permesso di sentire ogni parola, ogni rumore, proprio come se fossi rimasta al piano di sotto.

A volte prendevo coraggio e provavo a salire in camera, ma invece di andare a letto, mi mettevo a spiare dalle fessure che si erano formate tra una tavola e l’altra ciò che accadeva laggiù… infine stanca di sostare in quella posizione, chiamavo mia mamma che tornava a prendermi.

 Da più grandicella provavo compiacimento nel sapere che la sera non saremmo stati soli, mi prodigavo per aiutare mia mamma a preparare le castagnole ed altri dolci tipici del periodo carnevalesco. Ero contenta se alla veglia venivano invitate persone che non frequentavano spesso casa mia come Alberto e la sua famiglia.  La famiglia di Albero accettava raramente i nostri inviti non per mancanza di garbo, ma per una sorta di tradizione secondo la quale gli abitanti delle borgate più vicine al Castello si riunivano all’osteria di Gosto e lì trascorrevano le serate, sia nel periodo di carnevale che in altri momenti dell’anno.

Una volta all’anno si faceva la carnevalata di tutti i Rofellani: venivamo invitati all’osteria ed ogni famiglia offriva qualcosa da mangiare. In questa occasione le donne del vicinato di solito si accordavano per non proporre gli stessi piatti, chi si occupava del salato e chi dei dolci.

 La carnevalate, insieme al Veglione del Lunedì dell’Angelo, rappresentava una delle poche occasioni di incontro tra tutti gli abitanti di Rofelle.

La nostra frazione si estende in lunghezza, occupando un territorio che dal greto del fiume Marecchia risale verso Montebotolino; i gruppi di case che insieme formano il luogo sono disposti a distanza ragguardevole l’uno dall’altro: partendo dalla parte bassa troviamo “Il Giuncheto”, “Campo del Fiore”, “Casa di Massimino”, “Il Poggio”, “Il Pozzo”, “La Chiesa”, “Il Castello” (Considerato da sempre centro del paese), “Ca’Lupardo”, “Ca di Betti”, “La Vellata”, “Ca’Giovanicola e Ca’ di Butteri” ed infine “Il Turiolo”.

 Dal nucleo di case sito più in basso fino ad arrivare alla nostra abitazione, c’è una distanza di quasi quattro chilometri. Se si considera il periodo nel quale si svolgono le vicende, questa era una distanza che impediva a volte anche di conoscersi in modo più approfondito.

L’orizzonte era ristretto, soprattutto per una bambina come me, fino all’ingresso alla scuola elementare il mio mondo era il Turiolo, poi iniziò ad allargarsi a Rofelle, anche se esistevano, all’interno dello stesso Rofelle, luoghi che non avevo mai avuto occasione di conoscere.

Lo scorrazzare con i fratelli Butteri mi aveva certamente aiutata ad uscire dall’isolamento del mio regno, comunque ci orientavamo sempre verso le stesse tappe: Ca’Giovanicola, Ca’ di Butteri, il Castello e, solo raramente, la Chiesa dove vivevano i nonni materni di Ivana.

Ci sembrava interessante muoversi per le vie più brevi anziché viaggiare per la strada maestra, per cui alcuni gruppi di case ed i loro abitanti li ho conosciuti solo in età più avanzata.

Mio enorme privilegio è stato sempre quello di essere molto attenta ai discorsi degli adulti, anche a quelli dei commercianti ambulanti che si arrampicavano fin lassù con i muli carichi di some o di cassette contenenti i più svariati tipi di merci.

 Tra tutti voglio ricordarne almeno due che attiravano le mie simpatie.

 Il primo era il mugnaio di Rofelle il cui mulino era locato nel punto in cui il Fossone che raccoglie le acque di tutta la parte alta della lunga vallata di Rofelle, si congiunge con il Marecchia che fluisce dalla zona di Pratieghi e Fresciano.

 Sergio nella sua gioventù era stato un uomo seducente al quale non saranno sicuramente mancate compagnie femminili. Proprio perché le donne affascinate da lui erano tante, era rimasto solo a continuare la sua attività, senza avere contratto matrimonio.

A lungo andare la solitudine fu per lui rovinosa perché iniziò a darsi all’alcol e a farsi incurante della sua persona. La sua abitazione somigliava a quelle soffitte delle quale si legge nei libri di letteratura che ospitavano i cosiddetti “poeti maledetti” i quali, per loro scelta, sussistevano al di fuori di ogni forma di conformismo.

 Sergio saliva per la mulattiera che conduceva al Turiolo con il suo mulo per portare la farina oppure a prendere grano e cereali da macinare. I suoi modi di fare erano sempre cordiali e divertenti per cui trascorrere qualche ora in sua compagnia era davvero gradevole. La mamma, soprattutto se il suo arrivo coincideva con l’approssimarsi dell’ora di pranzo, lo invitava a trattenersi a tavola con noi e lui accettava di buon grado. Mentre si desinava, il mugnaio ci raccontava le vicende di “Rofelle basso” (così avevamo battezzato la parte del paese più vicina al fiume) ed a me non sfuggiva niente.

Anche Italiano arrivava attraverso la strada tortuosa che conduceva al nostro casolare; approdati in apice alla salita sia la baia cavalla che il trafficante avevano il fiato grosso e la lingua di fuori.

Italiano per sé non chiedeva mai niente, il primo pensiero era per la cavallina che avrebbe dovuto condurlo ancora ad altri lidi.

Il babbo o lo zio giungevano puntuali con una manciata di buon fieno che la bestia divorava avidamente. Intanto la mamma aveva preparato le uova che il mercante comperava, con il ricavato si faceva la spesa di alimentari: qualche pacco di zucchero e di sale, qualche confezione di sale e olio.

Nel mondo contadino non si sciupava veramente niente, nemmeno le penne d’oca.

 A quel tempo la mamma allevava molte oche che riempivano con i loro starnazzi il silenzio del Turiolo.

Quando iniziavano ad emettere i loro versi, era una vera ossessione. I saggi coloni che ben conoscevano i comportamenti degli animali, sapevano che quel rumore assordante segnalava la presenza di un pericolo e quanto mai di una persona estranea.

A quegli animali ci si affezionava come ad una sorta di cane fedele, pronto a difendere sempre gli interessi del suo signore.

Decidere di ammazzare un’oca non era cosa da tutti i giorni, si aspettava un’occasione particolare come l’arrivo di un parente, la mietitura o la trebbiatura.

La separazione definitiva dall’animale costituiva sempre e comunque una piccola ferita, ma i contadini sapevano bene che Dio aveva messo le bestie al servizio degli uomini!

Non era assolutamente il caso di sperperare, quindi dell’animale si usava davvero tutto: la carne veniva cucinata con il sugo oppure arrosto, le parti più vicine alle ossa venivano usate per il brodo, anche il collo dopo essere stato privato della parte più grassa, veniva messo nel brodo e riempito con un ripieno composto da pane, prezzemolo, sale, pepe ed un uovo. Il grasso che si toglieva dal collo e dagli altri tagli costituiva un prezioso condimento da usare nella cucina quotidiana: dopo averlo fatto sciogliere si conservava in un vasetto per essere utilizzato al momento opportuno.

 Per questo motivo si cercava di fare ingrassare il più possibile le oche avvalendosi di due strategie diverse: o si rinchiudevano in una stalla per fare in modo che mangiassero senza tanto consumo di calorie, oppure si legavano loro le zampe in modo che i movimenti fossero ridotti al minimo.

Tornando al nostro venditore ambulante, si deve ricordare che per lui la mamma metteva da parte sia le uova che le piume d’oca più soffici schiena. Le penne delle ali venivano usate per realizzare delle piccole ramazze in quanto erano più lunghe e dure.

 

Altro personaggio senz’altro singolare era Francesco Montini, dichiarato da tutti Franceschino.

Viveva a Ca di Betti con il babbo ormai ottantenne e il fratello insegnante di scuola media e soffriva di strani disturbi della personalità che si ripetevano a cicli continui, sempre nello stesso modo. Francesco era capace si starsene chiuso in casa anche per due mesi durante i quali rifiutava ogni visita anche da parte delle persone più vicine alla famiglia. Durante questo periodo alternava momenti nei quali si dedicava con passione alle faccende di casa ed alla cura dell’anziano genitore, ad altri nei quali se ne stava tutto il giorno a letto e, a detta del babbo e del fratello, si alzava di notte per mangiare. Terminato il periodo di reclusione, ne iniziava un altro durante il quale Francesco faceva visita a quasi tutte le famiglie della frazione: l’avventuriero iniziava la sua esplorazione dalla parte bassa, Giuncheto e Campo del Fiore per risalire fino al Turiolo, ultima tappa dopo la quale, secondo il fratello Daniele, sarebbe ripreso il letargo casalingo.

Nel luogo tutti eravamo abituati alle visite di Francesco e lo si accoglieva con generoso affetto.

Francesco cercava solo ospitalità e qualcuno per poter spalmare le sue chiacchiere, non sempre innocenti. Noi paesani ormai conoscevamo talmente bene i contenuti delle sue lunghissime disquisizioni che cercavamo di reggerlo anche quando queste sfioravano i limiti della correttezza.

Sono sempre stata intimamente convinta che quell’individuo non fosse cattivo, forse scattavano dentro di lui meccanismi perversi che lo spingevano a volere mettere zizzania tra le persone!

Dopo gli undici-dodici anni iniziò a darmi fastidio il suo modo subdolo di avvicinarsi a me: pur non avendomi essendosi mai esposto con palesi avance, iniziò a parlarmi di sesso in maniera spudorata, con un linguaggio volgare che mi era sconosciuto.

 All’inizio rimanevo ad ascoltarlo addirittura incuriosita, senza mai chiedere delucidazioni. Nel procedere del suo monologo egli si preoccupava di spiegarmi nei minimi dettagli gli aspetti più intimi di un rapporto sessuale. Acquisita questo tipo di confidenza, si permetteva di parlarmi ora di mia coetanea, ora di un'altra che erano state catturate dai suoi giochi sessuali trovandovi eccezionali soddisfazioni.

Per fortuna ero ormai matura da capire che si trattava solo di bugie.  La sua persona mi diventò quasi ripugnante e trovavo sempre qualche scusa per andarmene appena lo vedevo arrivare.

Quando rimanevo sola, a volte mi rigiravano in testa le sue eccentriche inventive erotiche e provavo ad immaginarmene protagonista ma il pensiero non mi procurava ancora alcuna eccitazione, pur essendo ormai pienamente del periodo della pubertà.

 Quando iniziai ad approssimarmi ai diciotto anni, l’indiscreto personaggio cominciò a parlarmi di politica tentando di persuadermi a diventare tesserata dell’allora Democrazia Cristiana. In quegli anni il dibattito politico era fervente ed ogni sezione di partito andava in cerca di nuovi adepti, soprattutto forze giovanili alle quale si richiedeva il coraggio di assumere incarichi di responsabilità all’interno del movimento. Io ero abbastanza partecipe ed interessata ai problemi sociali, soprattutto a quelli del comune di mia residenza. Avvicinandomi all’età del voto consideravo come una specie di dovere essere al corrente delle vicende che caratterizzavano la campagna elettorale e capire cosa significasse schierarsi da una parte oppure dall’altra.

Tuttavia non potevo cedere alla richiesta del mio adescatore perché lo consideravo un impegno talmente serio da non poter essere in grado ancora di assolvere. A proposito di questo voglio ricordare una volta in cui da ore l’improvvisato uomo politico mi stava indottrinando cercando di convincermi a firmare un modulo che mi avrebbe inscritto tra i fiancheggiatori della DC.

Ormai da un’ora stavo affermando che mi sentivo troppo giovane e non del tutto sicura della mia scelta per cui avrei preferito aspettare qualche anno. All’improvviso lo zio Renzo saltò su tutte le furie e cacciò di casa il nostro anfitrione.

 Passata la sfuriata, lo zio mi venne a chiedere scusa per essere intervenuto su un argomento che riguardava solo me, io non feci altro che ringraziarlo per avermi liberato da quelle opprimenti richieste.

 A parte tutto, quando Francesco morì lasciò un vuoto dentro tutti noi. Ancora oggi, ogni volta che entro nel nostro piccolo cimitero non posso fare a meno di passare a salutarlo e leggere la citazione voluta da lui stesso: “L’alba di ogni giorno vi porti il mio saluto e il mio messaggio di pace.”