CAP 1 - Nonno Bastiano
Di lui ricordo poche cose, ma le ricordo in modo chiaro e preciso. Sono impressi nella mia mente i sapori e gli odori di una fanciullezza spensierata trascorsa accanto a quell’omone buono dagli occhi dolci e dalla voce placida.
Non credo che abbia sofferto per la deformazione che aveva colpito la mia gamba e questo non fa che aumentare il mio amore per lui: l’accettazione completa di quello che ero, il bene gratuito.
D’altra parte io ero una bambina dolce, affettuosa con tutti. Sembrava che l’handicap mi avesse donato una grazia particolare nei fanciulleschi modi di fare, che regalavo a tutti quelli che mi stavano intorno. Non mancava mai un sorriso per il babbo, per zio Renzo e per la mamma. Crescevo in modo così aggraziato, tanto da illudere i familiari della vanità dei miei problemi fisici.
Bastiano, dal fisico grave, non si dedicava più ai lavori di campagna e trascorreva tutto il suo tempo con me.
La mamma, prima di dedicarsi ai lavori in casa, nelle stalle e anche nei campi, preparava un piatto di carne macinata che il nonno aveva il compito di riuscire a farmi mangiare.
A quei tempi non sapevo cosa fosse lo stimolo della fame e convincevo il mio grande amico a farmi curiosare nei cassetti dei comodini, nel baule grande del corridoio, mentre io tiravo fuori ogni ben di Dio, mangiavo qualche boccone di carne e lui ne era talmente soddisfatto che mi avrebbe fatto mettere a soqquadro l’intera casa.
Mio babbo era un accanito tifoso dell’Inter ed era abbonato alla rivista della squadra, in casa giravano foto del grande club allenato da Helenio Herrera, una in particolare troneggiava sull’umile mobile di cucina: raffigurava solo i volti dei calciatori, circondati dagli ori che avevano conquistato. Mio grande divertimento era quello di farmi ripetere dal nonno tutti i nomi dei calciatori, poi prendere la foto in mano ed indicare, ad uno ad uno, quei campioni del pallone, pronunciando i loro nomi. Pensavo che questo mi rendesse ancora più amabile agli occhi di mio padre, che mi circondava sempre di un amore infinito.
Il nonno aveva anche degli amici che venivano a trovarlo. L’odore acre del tabacco, quello più soffocante del fumo da pipa, richiamano alla mia memoria Ezio.
Nei pomeriggi autunnali ed invernali egli trascorreva molte ore con il nonno. Il grande cucinone dal pavimento a tavole si riempiva di fumo, infatti i due amici erano entrambi grandi fumatori di pipa; il nonno ne possedeva almeno dieci e si dilettava a fumare ogni giorno con una diversa.
Accomodati davanti al fuoco iniziavano i loro racconti di guerra ed io, che rimanevo ad ascoltare accucciata nello scalino del focolare, me li immaginavo come due eroi che avevano combattuto battaglie contro i demoni più pericolosi dell’inferno.
Di quei discorsi che duravano ore e si ripetevano sempre uguali, mi avevano colpito queste parole: “assalto alla baionetta” e “Altipiano di Asiago”. Lontano dal capire cosa fosse una baionetta, la parola aveva per me un suono simpatico e ogni pomeriggio aspettavo che venisse pronunciata di nuovo.
I discorsi degli adulti non mi annoiavano e nemmeno le loro occupazioni: appena potevo correvo nella stalla, insieme al babbo, chiedevo informazioni di una vacca e dell’altra, mettevo i nomi ai vitellini che nascevano ed anche alle manze che venivano allevate.
In estate, soprattutto dopo la morte del nonno, andavo nei campi insieme a babbo, mamma e zio Renzo e mi trastullavo a “costruire le tombe”.
Mi spiego meglio: a fine giugno, inizi di luglio, quando andavamo nei “prati alti” a fare il fieno, ai margini del campo sbocciavano dei fiori molto belli, il loro colore era tra il viola e il rosa chiaro. Io li raccoglievo e li sistemavo sul terreno in modo particolare, facendo finta di aver costruito tante piccole tombe.
Ancora oggi non so spiegarmi cosa mi spingesse a forgiare le forme di una tomba, anziché di una corona, una collana o di tante altre cose sicuramente più ilari.
Ma torniamo al nonno.
La sua camera da letto era la più grande, il letto poi mi sembrava enorme con quella coperta rossa e bianca tessuta al telaio; il ferro battuto delle lettiere le dava un aspetto sontuoso come se il capofamiglia avesse dovuto dormire, più comodamente degli altri, i suoi ultimi sonni.
Ai piedi del letto la mamma aveva sistemato una cassapanca di poco valore ricoperta da un panno dai colori delicati. L’armadio era piccolo, ad una sola anta e sprovvisto di specchio, inoltre vicino alla finestra era sistemato il lavamani con tanto di brocchino, bacinella ed un asciugamano che la mamma stirava accuratamente.
Nel pomeriggio il nonno si ritirava nella sua camera per riposare ed io, qualche volta, lo seguivo: mi stendevo nel letto vicina a lui e stavo zitta zitta, per non disturbare il suo sonno. Forse non dormiva veramente e si assopiva soltanto, con la sua reginetta accanto. Quando si coricava la sera, sempre prima di noi, sentivo scricchiolare le tavole, seguivo i suoi passi fino ad immaginarmelo addormentato in quel lettone da fiaba.
Lo zio Belluccio che abitava a Milano veniva a trovarci regolarmente e portava regali a tutti noi, ma soprattutto a me, sua unica nipote.
Lo zio non era sposato e nessuno di noi si aspettava ormai più che avrebbe fatto questo passo. La sua era un’anima libera, amante della compagnia degli amici e delle belle donne. Anche nei periodi di permanenza al Turiolo, lo vedevamo ben poco, perché usciva di casa la mattina e, spesso, rincasava a notte fonda.
Una volta si fermò da noi più del solito, lo zio aveva detto di essere in congedo ed avrebbe potuto trascorrere quasi tutto l’autunno. I primi freddi di novembre iniziarono a farsi sentire, gli uomini trascorrevano più tempo in casa ed io amavo tanto quel periodo dell’anno. Le serate si dilungavano e, attorno al focolare, anche lo zio Belluccio gradiva stare con noi, raccontarci della sua vita nella lontana Milano, dei personaggi che aveva dovuto scortare allo scalo di Linate, dei coltelli che era costretto a sequestrare…
E così l’inverno stava per arrivare.
Una sera venne Gosto, il gestore dell’unico bar di Rofelle e ci disse che era arrivata una telefonata importante per lo zio. Questi partì e tornò a notte fonda. Il giorno successivo trascorse come tutti gli altri e nessuno di noi chiese allo zio spiegazioni di quella chiamata così urgente.
Qualche sera dopo, il mistero fu svelato: lo zio partì nel tardo pomeriggio dicendo che sarebbe andato a Badia.
Dopo cena, come al solito, ci eravamo seduti intorno al focolare, il nonno era ancora con noi quando si aprì l’uscio di casa ed entrò lo zio, seguito da una donnetta di media statura: il viso era carino ed ispirava simpatia, i capelli corti ben pettinati, le labbra leggermente evidenziate dal rossetto.
La donna, dopo aver appena salutato, si rivolse al più anziano di casa e iniziò il suo sfogo rivolgendosi a quel povero vecchio, con pronunciato accento napoletano:
_Vostro figlio è uno mascalzone…uno delinquente! _
Il nonno che, ben poco sapeva della vita cittadina del figlio, rimase quasi senza parole:
_ Boia cano, no…perché dice così! Mio figlio è un bravo ragazzo!-
Io mi rifugiai tra le gambe del babbo e provai un affetto ancora più profondo verso il nonno che arrossiva e sbiancava.
Quello fu l’ingresso nella nostra famiglia di zia Anna.
Nel marzo successivo, il nonno morì, stroncato da un cancro fulminate al fegato. Io avevo solo cinque anni: se ne andava colui che, per primo, aveva creduto in me e mi aveva allevata con amore e dedizione unica, ma senza alcuna pietà. L’ottobre successivo vennero celebrate le nozze tra zio Belluccio e zia Anna.