CAP 2 - Il Turiolo
A quei tempi, nonostante i miei problemi, eravamo una famiglia felice.
Lo stato della famiglia contadina, finché è rimasta “solo” contadina, costituiva terreno fertile per il rinsaldarsi dei legami umani.
Per raggiungere la nostra casa non esisteva neppure la strada carrabile, l’auto doveva essere lasciata circa mezzo chilometro più sotto dopo di che si doveva salire a piedi arrampicandosi per una mulattiera.
In casa non c’era corrente elettrica né, tanto meno, telefono.
Ho parlato del cucinone con il pavimento a tavole ed il grande camino, lì trascorrevamo la maggior parte del tempo anche se la casa era provvista di un’ala più nuova, con le mattonelle di granito: un corridoio, una piccola camera e la cucina.
A poco, a poco prendemmo l’abitudine di consumare i pasti nella “nuova cucina”.
Per l’illuminazione usavamo la bombola del gas collegata attraverso un semplice impianto ad una piattina bianca che scendeva dal soffitto, al posto della lampadina c’era una “retina bianca” che andava accesa con un fiammifero. In quel modo si poteva avere un’illuminazione migliore. Tuttavia nelle altre stanze si usavano le candele.
Oggi quelli sopra descritti appaiono forti disagi eppure la nostra vita scorreva serena e nessuno di noi pensava che la lontananza dalle altre case e dall’unico presidio telefonico del paese, l’essere costretti a fare mezzo chilometro a piedi per raggiungere la strada carrabile, potesse comportare grossi rischi.
I miei familiari erano attenti al mio stato di salute, disposti a fare qualsiasi sacrificio, purtroppo la fisioterapia stava appena nascendo e nessuno degli specialisti dai quali fui portata prese in considerazione questa strada.
Poco dopo la morte del nonno fui portata a Arezzo da un ortopedico abbastanza rinomato che decise subito per l’intervento sostenendo che il mio problema alla gamba destra si potesse risolvere con un allungamento dei muscoli.
Quando si doveva andare oltre Badia, ci accompagnava Ottorino Brilli che era “il viaggiatore” del Comune.
Ricordo ancora, con profondo fastidio, quei viaggi: soffrivo di mal d’auto e ogni volta tornavo a casa bianca come un cencio lavato. Abituata al silenzio del Turiolo mi infastidivano i rumori, il traffico ed anche la presenza di persone sconosciute; mi attaccavo alla gonna della mamma, oppure ai pantaloni del babbo, diventavo rossa rossa e mi rifiutavo di rispondere a qualsiasi domanda mi venisse rivolta da estranei.
Quando, finalmente si ritornava a casa mi sembrava di uscire da un incubo.
A quei tempi non frequentavo ancora i miei coetanei tuttavia non conoscevo la solitudine, né avevo il tempo per annoiarmi perché sempre partecipe alle occupazioni della famiglia.
Poco tempo prima di iniziare la mia avventura scolastica fu costruita la strada carrabile e così anche la mia isola felice divenne parte di quell’immenso mondo che mi metteva quasi terrore.
La nuova strada si era presa parte del campo sottostante casa. Ero dispiaciuta soprattutto dell’abbattimento di un ciliegio che, oltre a produrre dei buoni frutti, era uno dei miei amici preferiti. Come ho già accennato, la carrabile aveva diviso il campo in maniera asimmetrica così che il cerro millenario era rimasto isolato da tutto il resto, circondato solo da un fazzoletto di terra. Si era venuto a creare l’angolo più suggestivo del Turiolo, quello in cui trascorrerò tante ore, anche in compagnia dei miei primi amichetti.
In un lato del praticello c’era uno scoglio sul quale era facile salire e scendere, anche per me; la mia fantasia galoppava talmente da farmi vivere ora avventure nel Far West, ora fantastiche scalate sull’Everest o sul K 2.
Altre volte salivo lassù semplicemente per godere del vento che si divertiva a scompigliare i miei lunghi capelli. Quando il babbo si decise a costruirmi l’altalena appesa ad un resistente ramo del Cerrone, quel semplice posto raggiunse il massimo del suo splendore. Nella bella stagione non stavo mai al chiuso ed “il pratino” diventò il mio angolo preferito.
Una volta avevo scoperto una covata di ricci: la mamma aveva scelto proprio le cavità che si erano create tra il terreno e le profonde radici del Cerrone, per far nascere i suoi piccoli. Era la prima volta che vedevo così da vicino dei cuccioli di animali selvatici, erano bellissimi e mi ispiravano tanta tenerezza. Un giorno mamma riccia non era più nel covo ed il mio babbo la trovò morta vicino alla stalla.
Mi impegnai per la sopravvivenza dei piccoli, portavo loro latte ed altri cibi così diventavano ogni giorno più belli e docili alla mia presenza, avrei potuto prenderli tra le mani e coccolarli per tutto il tempo che volevo se non fosse stato per il fastidio dato dagli aculei. Quando i ricci iniziarono ad uscire dalla tana, capii che li avrei persi, infatti abbandonarono il “Pratino” e di loro non seppi più nulla.
In inverno passavo il tempo gingillandomi con le bambole che lo zio Belluccio mi regalava, anche se nei miei ricordi non trovo nessun episodio che richiami quell’istinto materno che le bambine di solito provano, mi limitavo a pettinarle per poi risistemarle al loro posto, modi soprammobile.
Mi piaceva di più scarrozzare in cucina con il triciclo, oppure guardare e riguardare le numerose cartoline che lo zio ci inviava.
Il momento più atteso era il ritorno degli uomini dalla stalla: quell’odore, senz’altro nauseante, mi sembrava così gradevole, carico di affetto e di promesse. La serata del babbo e di zio Renzo era dedicata a me: lo zio si divertiva a sollevarmi fino a lanciarmi verso il soffitto, io ridevo a crepapelle e non avrei voluto più smettere quel gioco stupendo.
Il babbo si sedeva sopra lo scalino del caminetto e mi prendeva nella sua “casella” (tra le sue gambe) ed io gli facevo domande sui vitellini e sulle manze. Nel dopocena, lo zio Renzo spesso si recava al bar distante ben due chilometri. Il babbo mi aveva insegnato a giocare a carte: Rubamazzo, Strappacamicia e Briscola. Giocare sul tavolo sarebbe stato scontato e banale quindi il babbo staccava uno scuro dalla finestra, ci mettevamo l’uno di fronte all’altro e sistemavamo il legno sulle nostre ginocchia…quello era il fantastico tavolino da gioco.
La mamma dedicava le sue serate al lavoro a maglia, oppure al cucito, sapeva mettermi insieme dei vestitini stupendi, ma anche pantaloni e camicie per gli uomini di casa.
Lei si tratteneva a lavorare fino a tarda notte, io ed il babbo ci coricavamo presto e con la nostra candela salivamo le scale scricchiolanti ed andavamo nella camera dove il mio lettino era sistemato vicino a quello matrimoniale. Appena coricata mi piaceva che il babbo mi trastullasse ancora prima di addormentarmi: abile con le mani, proiettava nella parete ombre dalle sembianze di teste di cane; gli animali si azzannavano, si leccavano, giocavano tra loro. In quella festosa beatitudine, mi addormentavo ogni sera.
Pur crescendo apparentemente serena e tranquilla, cominciarono a mostrarsi i primi segni di un malessere interiore che si manifestava soprattutto nel terrore di rimanere sola, SOLA AL MONDO. Molte volte, anche in età matura, insieme alla mamma abbiamo cercato di capire quale potesse essere la causa di questa mia fobia, ma non abbiamo trovato una risposta plausibile. I primi segni iniziarono a manifestarsi dopo la morte del nonno, i miei famigliari iniziavano presto la loro giornata lavorativa, lasciandomi dormire pacificamente; certamente non si allontanavano mai perché le stalle erano proprio attaccate all’abitazione ed io lo sapevo benissimo. Tuttavia la mattina appena sveglia provavo la spiacevole sensazione di essere rimasta sola al mondo e mi mettevo ad urlare come una disperata. Qualcuno di loro accorreva sempre prontamente e tutto era passato, quel malessere si riaffacciava la mattina successiva.