CAP 3 - La scuola elementare
Il mio ingresso nella scuola avrebbe dovuto coincidere con il periodo dell’intervento alla gamba.
Mia mamma che tanto aveva lottato contro le paure, per lei ingiustificate, di persone molto vicine alla nostra famiglia che consigliavano di posticipare almeno di un anno il mio ingesso a scuola, vedeva modificarsi i suoi piani, a causa del prospettato intervento.
Inoltre in casa regnava un certo malumore temendo che le mie condizioni fisiche potessero peggiorare. Consigliati dal nostro medico di famiglia, il Dottor Giuliano Salvini, chiesero un’altra visita specialistica da un secondo ortopedico, anche lui molto tenuto in considerazione nella Firenze del tempo.
Il Dottor Scaglietti sconsigliò l’intervento ritenendolo addirittura dannoso. Secondo il luminare occorreva aspettare lo sviluppo dell’apparato scheletrico e muscolare, verso i venti anni si poteva parlare d’intervento, non prima.
La fisioterapia era ai primi albori quindi non c’era altro da fare che aspettare lo sviluppo del corpo.
Ricordo che ci fu consigliata una specie di doccia che dalla punta delle dita dei piedi arrivava fino al ginocchio. Mi veniva applicata di notte oppure quando me ne potevo stare a casa. Odiavo quell’aggeggio che costringeva completamente ferma la mia gamba destra, nella mia inconsapevolezza da bambina non ne vedevo assolutamente l’utilità ed occorrevano solo le pazienti parole della mamma per convincermi ad infilare quel brutto coso.
In quel periodo iniziò la mia vita sociale.
La scuola era distante all’incirca 2 chilometri dalla mia abitazione e ancora non era attivo il servizio di scuolabus comunale. Il babbo o lo zio mi venivano ad accompagnare a scuola con la Cinquecento gialla ed anche a riprendermi.
Dopo i primi giorni, nei quali non intendevo in nessun modo stare tante ore lontana dalla mamma, iniziò per me una nuova vita. Non ricordo, almeno fino alla quinta elementare (anno in cui fui costretta ad andare a scuola a Badia, per la piccola scuolina di Rofelle venne chiusa) di aver mai visto la benché minima compassione né negli occhi dei miei compagni né in quelli dei maestri. Tutti gradivano la mia compagnia e mi invitavano a casa loro e gli inviti venivano ricambiati dalla mamma.
La famiglia Butteri abitava nella Borgata centrale di Rofelle; dove c’era la scuola, un piccolo negozio di abbigliamento e l’osteria gestita dalla famiglia Valentini.
Ireneo Butteri e Rosa Gregori avevano messo insieme ben sei figli ed ora erano in attesa del settimo. I più grandi, Massimo ed Ivana, frequentavano già la scuola elementare: il maschio era in classe terza, mentre Ivana aveva la mia stessa età.
Con loro, particolarmente con Ivana, nacque subito un affetto profondo.
Era la prima volta che conoscevo l’amore persone estranee alla mia famiglia. Avendo altri quattro fratelli più piccoli in casa, Ivana preferiva
trascorrere il suo tempo con me ma anche con mamma, babbo e zio che iniziarono a considerarla una seconda figlia. A lei venivano rivolte le stesse attenzioni delle quali avevo sempre goduto e lei, che in famiglia non si era mai potuta beare di tanto affetto gratuito, iniziò a sentirsi a casa sua. La sera il babbo giocava a carte con noi e lo zio dedicava anche a lei gli stessi giochi acrobatici con i quali mi aveva sempre fatto crepare dalle risa.
Potrebbe sembrare naturale che io, abituata alle attenzioni esclusive di tutti i familiari, potessi soffrire di gelosia nel dividere con la mia amichetta tutto quello che era stato solo mio, invece ne godevo considerando Ivana una sorta di sorella che aveva i miei stessi diritti.
In classe eravamo una decina dalla prima alla quinta. La maestra Lorena, allora giovanissima, aveva un bel daffare nel portare avanti programmi così diversi e, soprattutto nel comprendere tutti i nostri piccoli problemi.
Ricordo che i maschi più grandi si prendevano gioco di due ragazzine che percorrevano più di dieci chilometri a piedi per venire a scuola, quindi le loro scarpe erano spesso infangate.
Altro soggetto di scherno da parte dei più grandi era Alberto che frequentava la classe seconda ed era un po’ sempliciotto ed ingenuo, tuttavia per me fu un grande amico. Spesso, dopo la scuola, mi fermavo da lui, facevamo i compiti insieme poi giocavamo a bocce, nel piccolo piazzale antistante le scale che portavano all’ingresso della sua casa.
Ricordo ancora un pomeriggio nel quale ci eravamo annoiati un po’ di tutto e non sapevamo cosa fare, iniziammo a tingerci il viso con i colori a cera e ci vestimmo con dei cenci vecchi che avevamo trovato in casa fingendo di essere indiani. Mi pare ancora di sentire le grida della mamma del mio amichetto che ci trovò conciati in quel modo. Avevamo inciso così pesantemente sulla pelle che fu dura ripulirci in modo decente.
A scuola Alberto faceva spesso il buffone provocando le fragorose risa mie e di Ivana. Quando la maestra Lorena non sapeva più cosa fare per contenere quel riso irrefrenabile che disturbava tutti, ci faceva uscire dall’aula mandandoci in due stanzini diversi.
Appena mi trovavo sola iniziavo a piangere e l’insegnante, fin troppo pietosa, mi richiamava in classe. Dopo poco il mio giullare iniziava di nuovo la sua sceneggiata e tutto si ripeteva dall’inizio.
Nonostante questi piccoli problemi, a scuola ero bravissima e a Natale di quel primo anno sapevo già leggere speditamente.
Ivana era più indolente verso gli impegni scolastici. La sua situazione familiare era completamente diversa in quanto già a sei anni svolgeva tanti piccoli lavori domestici e, soprattutto, badava ai fratelli più piccoli, proprio come una minuscola mammina. In casa mia invece la scuola era tenuta in grande considerazione: mia mamma, mentre attendeva alle sue faccende mi ascoltava nella lettura, mi leggeva i pensierini, mi dava consigli per i disegni, ecc. Insomma la mia carriera scolastica era iniziata “alla grande” ed io ero una bambina felice.